Lizzano Capoluogo

Lizzano Capoluogo

Lizzano in Belvedere (mt. 604)

Si narra che anticamente questa zona fu il rifugio di una comunità cristiana sfuggita dalle persecuzioni. Una “massa poenitentium”, che diede vita al primo villaggio chiamato Lizzano della Massa e poi Massa Lizzano ed infine Lizzan Matto, termine utilizzato fino al 1599.
Un luogo quindi non di “matti”, bensì di rifugio e di preghiera, attorno al quale l’Esarcato bizantino costruì un’antichissima pieve con annesso battistero, cui affidò il compito dicustodire il suo confine occidentale.
Ma se l’origine del termine massa (comunità) è chiara ciò che rimane ancora un mistero è la derivazione del nome Lizzano accostato da alcuni studiosi ad un altro episodio storico, la possibile ubicazione della “Sylva Litana”, individuata dallo storico Tito Livio presso le sorgenti dello Scotenna e diventata celebre per la sconfitta patita nel 214 a.C. dall’esercito romano per opera dei Galli Boi.
Non va dimenticato che lo Scotenna, che poi è l’antico nome del Panaro, nasce proprio dalla confluenza del Fellicarolo, dell’Ospitalee del Dardagna, il quale è il più occidentale dei corsi d’acqua che formano lo Scotenna-Panaro. Una foresta immensa ed impenetrabile che si estendeva fino al versante Toscano dove, fra l’altro, esiste anche un altro paese con il nome di Lizzano. Quindi una Massa, cioè una comunità di persone, formatasi nei pressi della Sylva Litana, da cui il nome Massa Lizzano diventato poi col tempo l’attuale Lizzano.
E’ difficile dire quanto di vero ci sia in queste ipotesi, di certo è che già nel 753, in occasione della stesura del famoso diploma di Astolfo, qui esisteva già un paese cui facevano capo (cum viculis suis), tutti gli altri borghi del territorio.
Ma se questa è la parte più antica della storia di Lizzano ciò che lo caratterizza da sempre è un altro aspetto, forse meno blasonato ma più concreto: il suono ritmato del maglio. Qui erano presenti infatti numerose officine, chiamate anticamente magone, dalle quali potrebbe derivare anche l’antico soprannome dato agli abitanti di Lizzano, detti appunto magoni, cioè uomini abili nella lavorazione del ferro.
Accanto alla fiorente produzione artigianale di arnesi presente fin dal ‘700 ed apprezzati per la loro qualità “nel Bolognese, Ferrarese, Marca Anconetana, Toscana ed altri Paesi ancora più lontani”, a partire dall’Ottocento nacquero nei pressi di Lizzano le prime ferriere. La presenza di corsi d’acqua, i folti boschi che assicuravano una buona disponibilità di carbone e l’abilità dimostrata dagli artigiani locali, indussero alcuni imprenditori ad impiantare proprio quassù le prime industrie manifatture dell’alto Appennino.
Una tradizione che prosegue ancora oggi nelle fabbriche presenti in località Panigale dove esiste una produzione di lame da neve la cui qualità è riconosciuta in tutto il mondo.
Dell’antica struttura di questo borgo, disposto un tempo lungo la strada che dalla piazza saliva verso la chiesa, rimane oggi ben poco. Dalla fine dell’Ottocento con l’arrivo della strada di collegamento fra Fanano e Porretta l’aspetto del paese è cambiato profondamente con la distribuzione delle case lungo il nuovo asse stradale e la conseguente modifica dell’impianto urbanistico originario. Per questo occorre un certo impegno per scoprire i pochi resti ancora presenti della Lizzano che fu, come la zona a monte della piazza che presenta la tipica tipologia di una casa-torre con caratteristico voltone, oppure la casa natale del governatore e poeta Bernardo Gasperini databile attorno al 1600 dotata di torretta centrale oggi perfettamente restaurata o il borgo del Fondaccio, così chiamato non solo perché era la parte più a valle del paese ma perché qui esisteva un piccolo lago, una “fonda”, cioè una concavità del suolo dove nasceva l’acqua, dove sono presenti i resti di una finestra quattrocentesca con mensola concava e un portale accecato di stile trecentesco.

Il Passetto: quest’area, così come la si vede attualmente, è di recente costituzione, essendo sorta nel periodo fra le due guerre quando, sotto la spinta del dinamico don Alfonso Montanari, il paese conobbe una notevole rivoluzione urbanistica a fini soprattutto turistici.
Gli interventi maggiori si ebbero a livello delle vie di comunicazione: fu aperta, infatti, via III Novembre, la strada centrale del paese, e furono chiuse altre piccole strade interne. Quest’area era in origine una zona coltivata a castagni, da attraversare per raggiungere Ca d’l’Óvra (Casa dell’Opera) e Fratta, sedi di terreni del Beneficio parrocchiale che venivano affittati per un periodo di tre anni. Poco oltre si trova Bargi, su uno sperone roccioso che si protende verso la vallata; si dice che qui si trovasse un fortilizio, di cui però non rimane memoria.
Sassocchio: la località attualmente fa parte dell’abitato di Lizzano, ma fino al periodo fra le due guerre era considerata una frazione esterna al paese. È posto in direzione nord sull’antica strada che saliva da Porretta attraverso Panigale, l’Albaióla, che nel suo tratto lizzanese è detta La Serra. Il toponimo, presente negli Estimi del 1475, è indicativo di una morfologia resa accidentata dalla presenza di molte pietre erratiche e di piccoli affioramenti rocciosi.
La famiglia più prestigiosa di questo rione fu la famiglia Scarlatti, che si estinse alla metà dell’800 per sole nascite femminili; l’unico maschio divenne sacerdote e fu per molti anni cappellano a Lizzano. Altra importante famiglia originaria di questo rione è la famiglia Margelli, presente almeno dalla metà del ‘700.
La famiglia Baruffi è la più recente tra quelle che hanno abitato questo luogo. Compare, infatti, nei registri dell’archivio della Pieve solo dalla fine del XVIII secolo: un esponente di questa famiglia, Domenico, era soprannominato “ma stelletta”, forse perché costruiva tinozze e secchi. Una parte di questa famiglia si trasferirà poi in Corniola intorno alla metà del 1800. Secondo Tito Zanardelli, autore all’inizio del secolo di uno studio sui soprannomi di Lizzano, il soprannome di quelli di Sassocchio era “I Matti”.
La Pieve: Dedicata a San Mamante, martire di Cesarea del III secolo, ha una storia molto antica essendo stata fondata nel 753 da S. Anselmo di Nonantola, cognato d’Astolfo re dei Longobardi. Un’altra ipotesi è che S. Anselmo procedesse solo ad una ricostruzione di un edificio preesistente d’origine bizantina, essendo il territorio belvederiano a confine con l’Esarcato. Essa è citata in un documento longobardo del 753, con le comunità all’epoca ad essa afferenti di Vidiciatico, Sasso, Gabba, Grecchia.
L’antica pieve, che aveva orientamento canonico est-ovest (al contrario di quella attuale), fu demolita a partire dal 1912 perché pericolante a causa di infiltrazioni d’acqua; in quell’anno cominciò, a cura del pievano don Alfonso Montanari, la costruzione della chiesa attuale, che si concluse con l’inaugurazione nel 1938 a cura di don Giuseppe Baccilieri, le cui spoglie sono inumate nel pavimento della pieve sotto la cupola, a fianco di quelli di don Montanari.
Il progetto dell’attuale pieve si deve all’architetto Francesco Gualandi di Castello d’Argile, paese di origine di don Montanari, che con il figlio Giuseppe progettò molti edifici sacri in stile neogotico nella prima metà del Novecento. La nuova chiesa, costruita nel 1935, si presenta a pianta centrale coperta da cupola ed è affiancata da un imponente campanile in pietra innalzato nel 1960. Realizzata con il contributo economico di tanti belvederiani emigrati in varie parti del mondo, grazie all’opera instancabile di don Montanari.
Oggi dell’antica pieve, dalle semplici forme romaniche a tre navate separate da colonne monolitiche in arenaria, restano solo alcune foto sbiadite in quanto il suo posto è stato preso da un edificio di tutt’altro stile, dalle forme dilatate, ispirato forse più dall’ambizione che da necessità reali.
Della primitiva costruzione rimane soltanto il battistero a pianta ellittica, visibile dietro il campanile attuale; tale costruzione è detta convenzionalmente “Delùbro”, termine che in realtà indicava nella classicità romana un tempio adibito alla purificazione dei sacerdoti prima delle cerimonie religiose.
Delùbro: L’edifico che da sempre caratterizza il paese è la costruzione in pietra più antica della provincia di Bologna, dato che la sua costruzione, ad opera di Anselmo di Nonantola, risale alla metà dell’VIII secolo.
In realtà questo edificio, a base ellittica con volta semisferica e piccola abside, non fu mai un delubro nel senso etimologico del termine, cioè un tempietto pagano, bensì il battistero della pieve alla quale era collegato tramite una porta interna. La forma, molto simile alle pievi ravennati, e l’origine bizantina della chiesa, hanno tratto in errore molti studiosi che hanno attribuito a questo edificio, oggi scollegato dal restante complesso ecclesiastico, una funzione di tempietto che non ha mai avuto.
Non è noto quando il Delùbro abbia cessato la sua funzione di battistero, ma già dal XII secolo esso era divenuto base del campanile e tale rimase fino al 1951, quando l’antico campanile fu abbattuto. La presenza di una grande sorgente d’acqua proprio sotto il Delùbro (sorgente che ha causato problemi di statica a tutto il complesso di edifici) sembra essere ulteriore prova della sua destinazione battesimale.
La pieve è cresciuta nei secoli intorno al Delùbro, inglobandolo negli edifici costituenti la canonica e nella parte della pieve che, ampliata nel XVIII secolo, costituiva la sacrestia e una stanza per le pubbliche udienze. Nell’area circostante il Delùbro si trovava, fino al XVIII secolo, il cimitero del paese. Recenti studi hanno permesso di identificare ciò che resta di un complesso di vani sotterranei che si estendevano sotto la pieve e la canonica antiche.
La grande croce in pietra visibile nel giardinetto antistante la pieve è opera di uno scalpellino locale, Lino Monari.
L’interno della pieve è molto spazioso; la cupola si eleva fino a 40 metri.
Nella balconata lignea della controfacciata si trova la cassa d’organo in legno intagliato e dipinto, risalente al 1636.
A sinistra dell’ingresso principale, risalendo verso il presbiterio si trovano tre cappelle: quella di san Giovanni Bosco, quella di san Giuseppe e quella del Sacro Cuore di Gesù.
A destra la cappelle di santa Cecilia, molto venerata dai lizzanesi che possono vantare una Società Musicale fondata nel 1876, quella di sant’Antonio da Padova e quella della Madonna del Rosario, in cui si può ammirare una pregevole statua della Vergine in gesso e carta pesta dipinti, risalente al 1632, completa di fioriera realizzata nel 1837. L’ancona lignea che la circonda fu realizzata negli anni ’50 da un abilissimo artigiano locale, Raffaele Vai, come quella del Sacro Cuore.
Tutti gli affreschi che decorano le cappelle e la chiesa sono stati realizzati da Luciano e  Sara Bettini di Bologna nel 1959.
Il presbiterio è stato totalmente riorganizzato da don Racilio Elmi, attuale pievano, in occasione della Festa Triennale del 1983. Le colonnine di marmo che delimitano lo spazio del coro sono state offerte da parrocchiani generosi, e dedicate la prima a sinistra a san Domenico, la prima a destra a san Francesco. Gli affreschi al centro del presbiterio raffigurano scene della vita di san Mamante, con ai lati l’Ultima Cena e le Nozze di Cana.
Il deambulatorio custodisce gli arredi più preziosi, salvati dalla demolizione.
Sulla porta della sacrestia, a sinistra del presbiterio, si può vedere la pala dell’altare maggiore dell’antica pieve: raffigura san Mamante a sinistra e san Marco a destra, caratterizzato dal leone visibile al centro; si noti che il riflesso del leone nello scudo appare come una testa di vecchio. In alto si trova l’Incoronazione della Vergine, mentre al centro è visibile la raffigurazione fedele dei monti dell’Uccelliera, sul crinale a confine tra il Belvedere e la Toscana. Questa pala è opera dei pittori fananesi Ascanio e Pellegrino Magnanini, che hanno operato tra fine XVI e prima metà del XVII secolo in molte chiese dell’Appennino bolognese e modenese.
Proseguendo verso sinistra si trova una pala realizzata a olio su tela, raffigurante sant’Antonio Abate, riconoscibile dagli attributi tipici (il fuoco, la campanella, il cinghiale); recenti ricerche d’archivio consentono di datare l’opera al 1634 e di attribuire questa pala pregevolissima a Pietro Gallinari, allievo prediletto di Guido Reni.
Ancora oltre si trovano la statua di san Mamante del 1900, usata ancor oggi per le processioni, poi una statua di santa Rita e una di san Francesco risalente al XVIII secolo, forse in origine posta all’interno dell’oratorio a Lui dedicato, costruito nel 1731 e demolito nel 1901.
Ancora verso destra si trova un bel quadro di ignoto autore, a olio su tela, che raffigura la Madonna della Ghiara; è stato donato alla pieve da una devota residente nel borgo dei Ronchi, dove il quadro era conservato in un oratorio. L’opera, un ottimo esempio di Seicento emiliano,  si trova all’interno di una ricca cornice in legno intagliato e dorato, databile alla prima metà del XVII secolo.
Più avanti, sempre verso destra, è visibile un bel Crocifisso risalente alla fine del XVIII secolo.
All’estrema destra del presbiterio si trova una pregevole pala d’altare datata 1632. Raffigura i Santi Rocco e Sebastiano con la Madonna del Carmine incoronata da due cherubini; a terra, tra i due Santi, si trova una figura distesa su un panno bianco, un uomo con una piaga sul petto. Sullo sfondo il paese di Lizzano, perfettamente caratterizzato dalla raffigurazione dell’antica pieve vista da dietro, con il vecchio campanile ottagonale sul Delùbro. In basso al centro la scritta “CHARITAS POPULI 1632” conferma che la pala fu voluta come ex voto dai lizzanesi dopo la peste del 1631. Anche questa pala proviene, come testimoniato dai documenti d’archivio, dalla scuola di Guido Reni: in particolare, nella figura di san Sebastiano non si esclude un intervento diretto del celebre pittore bolognese, noto per le figure dolenti con gli occhi rivolti al cielo. Questa è certo la più rilevante opera d’arte custodita nella pieve.
A terra, presso l’altare maggiore, si trovano capitelli e portastendardi in arenaria, avanzi della struttura della pieve antica.
In fondo alla chiesa, presso l’ingresso, si trovano due plastici, realizzati anch’essi da Raffaele Vai: uno mostra la chiesa attuale, l’altro raffigura la pieve come si presentava nel 1900, nella struttura che aveva assunto in seguito a lavori del 1675, quando erano state aggiunte una piccola cupola e le navate laterali. Il plastico mostra anche la posizione dell’oratorio dei Santi Francesco e Gioacchino, di cui esisteva anche la Confraternita fino agli anni ’60 del Novecento.
Borgopiatto: deve il suo nome alla posizione ribassata rispetto alla piazza del paese. La forma attuale è frutto di lavori di risistemazione della fine dell’800: prima le case erano in minor numero e più piccole, addossate le une alle altre. Qui si trovava il casóne di Federico Polmonari, in cui si radunavano i ragazzi per ascoltare le fiabe narrate da Angelo Bartolai, abile folàio come Bonuccione (Francesco Bonucci) che le narrava nel casóne della Còrniola. C’era anche il forno della Carola Picchioni, che per modico compenso lo metteva a disposizione di tutti: era necessario però procurarsi la legna e lasciare pulito per un successivo utilizzatore.
La processione della Triennale, istituita per ringraziamento dopo l’epidemia di colera del 1855, aveva qui una delle sue tappe, con Ca’ d’Guido, il Martignano, il Fondaccio e la Piazza.
Tra le famiglie originarie di Borgopiatto si ricordano i Polmonari, i Gaetani e i Martini, proprietari della casa più grande di Borgopiatto; questi ultimi erano presenti qui almeno dal 1500, con arca propria all’interno della Pieve. Un’esponente di questa famiglia, Rosalia, fondò nel 1828 l’Asilo Martini (ancora esistente) nell’edificio che attualmente ospita il Piccolo Hotel Riccioni. In questo edificio si trovava anche l’appalto, negozio di generi vari.
S. Antonio: secondo la tradizione moderna, la zona prende il nome da una maestà (edicola votiva) che era qui presente fino al periodo fra le due guerre e che recava una formella di terracotta invetriata raffigurante S. Antonio Abate, ancora visibile murata nell’arco di uno degli ingressi alla piazzetta. Tale ipotesi sembra però smentita sia dalla datazione della ceramica, non anteriore alla metà del XIX sec, sia dagli studi più recenti, che hanno evidenziato la presenza in quest’area di una “terra murata” che probabilmente era munita di una cappella interna, forse dedicata a S. Antonio Abate quale protettore degli animali: per proteggere il bestiame dalle scorrerie dei predoni lo si rinchiudeva nelle piazzette, che in origine avevano il fondo a prato, non lastricato.
Altri esempi in zona sono Campiacióla a Vidiciatico e la piazzetta di Casale. Da qui passava un torrente che fu coperto per permettere un più agevole passaggio sulla Pianarina, la strada che scende dalla Pieve. Questo torrente compare nelle carte del ‘700 e si pensa che costituisse il fossato della cerchia muraria del “castrum” (ricetto) di Lizzano presso la porta nord.
Più in basso, di fronte agli attuali bar Mattioli e Cock’s, fu coperto alla fine dell’Ottocento per permettere il passaggio della Strada Provinciale, per proseguire, scoperto, verso Sassocchio. Il voltone sembra far parte anch’esso di una struttura difensiva, in quanto mostra una feritoia.
I terreni circostanti la piazzetta (orti e castagneti) erano in gran parte di proprietà della famiglia Gasparini, una delle più prestigiose del paese (tanto da avere un’arca propria nell’antica Pieve), che ha dato i natali ad una stirpe di notai presente nei documenti almeno dal XV secolo fino alla fine dell’800.
La Còrniola: negli Estimi del 1475 questa zona è detta Còrnia, con evidente riferimento alla presenza di una pianta di corniòlo, non molto comune alle nostre quote. Non stupisca il genere femminile, che il nostro dialetto ha conservato dal latino per i nomi di pianta.
La struttura urbanistica di questo luogo è mutata nel tempo: in origine era un grande orto circondato da siepi, interrotte ogni tanto da qualche edificio, sia abitazioni private che edifici produttivi come stalle, fienili ecc. La maestà visibile, in origine al centro della piazzetta, fu eretta da Luigi Baruffi e dalla moglie Maria Miglianti, che qui risiedevano, e che intesero in tal modo testimoniare la loro fede e implorare la benedizione divina sulla loro famiglia, ancora presente a Lizzano. La casa visibile a fianco della maestà fu costruita alla fine dell’800 ed era detta Casa Bonucci.
La prima illuminazione pubblica, a petrolio, fu accesa il giorno dell’Epifania del 1893: uno dei tre lampioni fu posto in Còrniola, gli altri due uno in piazza e l’altro nella discesa al Fondaccio (in fondo alla piazza attuale).
La cura dei lumi era affidata ad Antonio Baruffi e al figlio Onorato (Nóre), poi a Pompeo Vai e a Domenico Lancioni.
Nel 1901 furono aggiunti altri tre lampioni, uno al Fondaccio, uno in Borgopiatto e uno in Ca’ d’Guido, con ben tre anni di anticipo rispetto a Bologna. La corrente elettrica era prodotta dalla centrale di Porchia.
Tra le famiglie originarie di questo rione i Baruffi (di cui si è già detto a proposito di Sassocchio) e i Vai, presenti a Lizzano almeno dal 1600. Qui abitava l’ostetrica del paese, la Carubina, col marito Angelo Mattioli, detto Ang’létto dal balle perché le sparava grosse e non voleva essere contraddetto; Ang’létto aveva installato un piccolo laboratorio di meccanica in un locale adibito a bottega di fabbro, dove i Mattioli forgiavano i chiodi a mano.
Questa piazzetta è sede di diversi appuntamenti estivi per iniziative di vario genere, da mostre di pittura a giochi per bambini, da serate culturali a concerti della banda di Lizzano e del coro Monte Pizzo. Da qualche anno è gemellata con Ca’ Gherardi di Vidiciatico.
Il Fondaccio: deve il suo nome alla posizione ribassata rispetto alla parte centrale del paese, un “fondo” in cui si raccoglieva acqua piovana; in effetti, era presente un piccolissimo lago tra il Fondaccio e il Martignano, cancellato dai lavori per la Provinciale alla fine dell’800.
Il Fondaccio è presente nei documenti d’archivio della Pieve quale sede, almeno dal XV secolo, di due fra le più prestigiose famiglie di Lizzano, i Biagi e i Filippi, che diedero al paese sindaci, sacerdoti, medici, notai e avvocati.
La sua posizione a cavaliere della valle ne faceva un punto privilegiato d’osservazione in caso di scorrerie di briganti e predoni.
La struttura urbanistica del rione è stata parzialmente modificata nel tempo: era probabilmente una piazzetta chiusa come altre in paese, di cui resta solo il grande arco di accesso, recentemente restaurato e portato alla luce; la diversità sta nel fatto che il Fondaccio costituiva un nucleo a sé stante, non era inserito nel tessuto urbano originario del paese.
Il grande portale visibile sul muro di un’abitazione privata presenta tutti i caratteri tipici di un’abitazione signorile del secolo XV: le iscrizioni e la costruzione con pesanti bozze di arenaria non erano comuni in un’epoca in cui le abitazioni della gente comune erano in gran parte costruite con materiali deperibili.
La tradizione popolare riporta della presenza in questo edificio di un piccolo convento di suore.
Il Moredo: dagli Estimi apprendiamo che in questo luogo c’era un grande podere per la coltivazione di gelsi che contribuiva a rifornire l’industria della seta di Bologna tra XVI e XVIII secolo. Il fatto che la parte sottostante il rione fosse a vocazione agricola è testimoniato anche da un altro toponimo, Via della Spelta, che conduceva ai campi coltivati con questa graminacea simile al farro e al grano.
Ca’ d’Guido: non è noto chi fosse questo Guido che ha dato il nome al rione. Quel che è certo è che Ca’ di Guido è una delle parti più antiche del paese, le cui case sono costruite sulla cerchia di quella terra murata che si va scoprendo in questo periodo.
Testimonianza di tale antichità è la casa-torre che sovrasta il voltone: nel muro della casa a fianco si può vedere un bel portale quattrocentesco emerso nel corso di lavori di restauro dell’edificio; la lunetta in cotto, datata 1841, è opera di don Lorenzo Filippi, sacerdote e insegnante a S. Lucia a Bologna (poi Liceo Galvani), nato nel 1783. La lunetta faceva parte di una grande maestà che si trovava al centro della piazza e fu demolita ai primi del Novecento.
Nella casa-torre c’era una tivà (stanza del telaio) con un telaio a disposizione di tutte le donne che sapessero tessere ma che non ne possedevano uno proprio. A sinistra dell’uscita dell’arco verso la Piazza si trovava l’ufficio postale, diretto dall’Elena Filippi e dal fratello Oreste. Di fronte c’era il grande forno dei Petroni, aperto anche ai privati.
Ca’ d’Guido era una delle tappe delle Rogazioni mariane, introdotte a Lizzano da don Antonio Margelli nel 1842; le altre località toccate erano il Fondaccio e la Piazza. Più tardi fu anche una delle tappe della Triennale.
Qui è nato nel 1881 don Achille Filippi, maestro elementare e poeta, autore di una monografia su Lizzano. La grande casa visibile su un lato della piazzetta è Villa Lardi, dal nome dell’ingegnere originario di Fanano che si trasferì qui con la famiglia alla fine dell’800.
Tra le famiglie originarie di Ca’ d’Guido almeno dal ‘400 vi sono i Camparri (una parte dei quali si trasferì poi in Biana), i Bonucci e una parte dei Filippi proveniente dal Fondaccio.
Sott’al Ca’: a sinistra del Burgón di gatti (buco dei gatti) c’è un voltone col nome indicativo di sotto alle case. Di fronte c’erano dei piccoli orti, uno dei quali fungeva da ricovero per le pecore di Giovanni Fiocchi, sebbene fosse molto piccolo e le povere bestie dovessero stare tutte strette.
La tradizione popolare riporta che davanti al voltone di Ca’ d’Guido fu sepolto un tale col vizio del gioco; quest’uomo fu trovato morto, forse ucciso nel corso di una lite.
Biana: posto nella parte alta del paese è un rione molto antico, già presente almeno dal Medioevo ed era piuttosto popoloso; il nome Biana, di etimo ignoto, compare negli Estimi del 1475 e da documenti presenti nell’archivio della Pieve si apprende che era circondato da castagneti di proprietà del Beneficio parrocchiale, che rimasero in suo possesso fino alla morte di don Giulio Pacchi il 27 luglio 1897. Poiché era un luogo piuttosto isolato, si prestava ad agguati e delitti: in archivio si trova traccia di almeno due delitti passionali, compiuti ai danni di due giovani donne alla metà dell’700.
Esistevano qui diversi casóni (essiccatoi da castagne) pubblici, che potevano cioè essere utilizzati da chi non ne possedeva uno proprio; tale consuetudine è proseguita fino agli anni ’20 del Novecento.
A proposito del nome della località, si possono fare alcune ipotesi: da “biada” (foraggio) dal latino medioevale “blada”; da “bianca”, il primo sonno dei bachi da seta; da una radice longobarda “blaih”, col significato di “pallido, sbiadito”; o da “piana”.
Esiste ancora una consèrva (ghiacciaia) che fu utilizzata fino al secondo dopoguerra per conservare la neve invernale in una grotta artificiale scavata nella roccia. La neve, pressata e coperta da foglie di castagno o da paglia, si conservava fino all’estate, quando veniva utilizzata per la conservazione di alimenti deperibili e per fare le prime granite. Era di proprietà del macellaio Emilio Bartoloni.
Via del Fiorentino: sentiero di fronte alla ghiacciaia che conduceva alla casa dei fratelli Giuseppe e Cesare Guglielmi, due dei tre pastori rimasti a Lizzano all’inizio del Novecento; l’altro era Giovanni Fiocchi, residente in Ca’d’Guido. Il sentiero proseguiva poi, in mezzo ai castagneti, fino alla Pieve.
Aserecchi: luogo nei pressi di Biana si trovano la via e il castagneto omonimi, toponimo di etimo molto incerto. L’unica voce simile è récchia, voce del toscano antico che indica una pecora che non ha ancora figliato. Ma è più probabile che indicasse una zona piuttosto umida, dato che potrebbe derivare anche dal verbo latino seresco, dal significato di “asciugarsi” preceduto dall’privativa, quindi “che non si asciuga”.
Le famiglie che almeno dal 1500 hanno trovato qui la loro origine e sono ancora presenti a Lizzano sono i Guglielmi e i Camparri, detti, ancora alla fine dell’800, Camparotti.
Sant’Antonio: quest’area, così come la si vede attualmente, è di costituzione relativamente recente, essendo nata dall’abbattimento di alcune costruzioni antiche per aprire la strada attuale intorno alla metà dell’800. Si presume che la vòlta che qui si trova immettesse in un passaggio parallelo alle mura del castrum; tra l’altro, sull’edificio in pietra visibile a destra della vòlta si scorge quella che sembra essere una feritoia lobata, con funzioni di osservazione e difesa.
La via prende il nome dalla targa devozionale di terracotta murata sull’arco, raffigurante appunto s. Antonio Abate. La casa Gasperini, detta anche Ca’ del Popolo, nel XVI secolo fu costruita al di fuori delle mura del castrum, appoggiata ad esse.
Bargi: questo rione periferico di Lizzano deriva forse il suo nome dalla voce celtica “barga” che significa capanna.
Data la posizione favorevole a cavaliere sullo spartiacque tra i nostri due fiumi, Silla e Dardagna, è possibile che già in epoca antica si fosse insediato qui un piccolo nucleo abitato, tanto più che le testimonianze di una cospicua presenza celtica sulle nostre montagne si fanno sempre più evidenti, dalla lingua all’arte.
Fratta: ripido scoscendimento sotto Bargi, in direzione nord-ovest, toponimo presente solo qui sul territorio e che in genere indica un terreno incolto e boscoso o anche una siepe di confine; data però la presenza (che pare ormai accertata) di una cinta muraria a Lizzano databile forse intorno al Mille, questa fratta potrebbe essere stata “una fascia di terreno mantenuta ad arte fittamente boscosa ed intricata (A. Settia, 1984)”, una struttura difensiva naturale nota e diffusa nell’Italia settentrionale a partire dal XII secolo.
Pra’d’FórraPrato di fuori Nella stessa direzione di Fratta. Si ipotizza che tale nome derivi dal fatto che questo podere si trovava al di fuori del castrum e della fratta, sua avanzata linea di difesa. Se l’ipotesi fosse confermata, sarebbe quindi un toponimo molto antico.
Nei pressi di Lizzano si trovano due antichissimi borghi;il primo posto lungo la strada che conduce a Pianaccio è quello di Casale, nato come luogo fortificato a controllo della strada medioevale che risaliva la valle del Silla verso la Toscana e dove fu trovata una statuetta d’origine etrusca raffigurante il dio Vertunno della quale non si hanno più notizie.
Le ferriere: Per almeno due secoli nella zona hanno funzionato tre mulini che svolgevano anche l’attività di affilatura degli attrezzi e di follatura dei panni. A partire dai primi dell’Ottocento questi edifici furono trasformati, anche con importanti modifiche strutturali, proprio in quelle ferriere che hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia e nello sviluppo di Lizzano. Tre gli edifici storici ancora presenti nella valle del Silla: a Porchia, a Panigale di Sopra e a Panigale di Sotto.
Cominciamo da Porchia il cui nome deriva dal latino “portula” diminutivo di porta d’accesso o passo, e chi conosce il luogo sa bene che si tratta del punto più stretto della valle nonché passaggio obbligato d’accesso verso la Toscana.
Qui, nel 1826, la società di Egidio Succi e Tommaso Francia impiantò la prima ferriera del territorio che è rimasta attiva fino alla fine dell’Ottocento quando fu trasformata in una centrale idroelettrica tornata in funzione da alcuni anni grazie alla tenacia dell’attuale proprietario.
Accanto alla ferriera è presente un antico oratorio oggi abbandonato dedicato a San Giovanni Battista edificato alla fine del Seicento ed interamente ricostruito nel 1895.
Scendendo più a valle troviamo la ferriera di Panigale di Sopra, un antico mulino da farina riconvertito nel 1825 in ferriera dalla ditta Succi-Francia, ancora in parte conservata.
Poche centinaia di metri ed ecco la terza ferriera, quella di Panigale di Sotto, avviata nel 1827 dalla ditta bolognese Bontempelli-Lodi oggi di proprietà della famiglia Lenzi, è rimasta in funzione fino agli anni Novanta. Dal 2007, grazie all’intervento di recupero effettuato dal Parco Corno alle Scale, la ferriera è stata trasformata in un piccolo museo.
Entrando nelle ampie sale si ha la sensazione che gli operai abbiano smesso di lavorare da poche ore: le strutture murarie ancora intatte ed annerite dal fumo, gli antichi magli ad acqua ed i numerosi attrezzi appesi alle pareti, ne fanno un luogo davvero unico. Un museo dell’ingegno e della fatica umana dove generazioni di lizzanesi hanno prodotto vanghe, badili, aratri e poi assi per carri e vomeri.
Fu proprio dall’esperienza accumulata nella produzione degli aratri che nel 1934 Giovanni Assaloni, un artigiano d’origine friulana trapiantato a Lizzano, cominciò a studiare la possibilità di realizzare una lama sgombraneve assolutamente innovativa. La curvatura, che riprendeva la forma dell’aratro, consentiva infatti di scaricare la neve all’esterno evitando l’accumulo del materiale che altrimenti nessun mezzo sarebbe riuscito a spingere in avanti. Fu l’inizio di una produzione, poi diventata industriale grazie all’arrivo in azienda dei fratelli Carlo e Luigi Assaloni, ancora oggi conosciuta e apprezzata in tutto il mondo. (di Alessandra Biagi).

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