Medioevo – Delùbro e Pieve

Medioevo – Delùbro e Pieve

La Pieve: Dedicata a San Mamante, martire di Cesarea del III secolo, ha una storia molto antica essendo stata fondata nel 753 da S. Anselmo di Nonantola, cognato d’Astolfo re dei Longobardi. Un’altra ipotesi è che
S. Anselmo procedesse solo ad una ricostruzione di un edificio preesistente d’origine bizantina, essendo il territorio belvederiano a confine con l’Esarcato. Essa è citata in un documento longobardo del 753, con le comunità all’epoca ad essa afferenti di Vidiciatico, Sasso, Gabba, Grecchia.
L’antica pieve, che aveva orientamento canonico est-ovest (al contrario di quella attuale), fu demolita a partire dal 1912 perché pericolante a causa di infiltrazioni d’acqua; in quell’anno cominciò, a cura del pievano don Alfonso Montanari, la costruzione della chiesa attuale, che si concluse con l’inaugurazione nel 1938 a cura di don Giuseppe Baccilieri, le cui spoglie sono inumate nel pavimento della pieve sotto la cupola, a fianco di quelli di don Montanari.
Il progetto dell’attuale pieve si deve all’architetto Francesco Gualandi di Castello d’Argile, paese di origine di don Montanari, che con il figlio Giuseppe progettò molti edifici sacri in stile neogotico nella prima metà del Novecento. La nuova chiesa, costruita nel 1935, si presenta a pianta centrale coperta da cupola ed è affiancata da un imponente campanile in pietra innalzato nel 1960. Realizzata con il contributo economico di tanti belvederiani emigrati in varie parti del mondo, grazie all’opera instancabile di don Montanari.
Oggi dell’antica pieve, dalle semplici forme romaniche a tre navate separate da colonne monolitiche in arenaria, restano solo alcune foto sbiadite in quanto il suo posto è stato preso da un edificio di tutt’altro stile, dalle forme dilatate, ispirato forse più dall’ambizione che da necessità reali.
Della primitiva costruzione rimane soltanto il battistero a pianta ellittica, visibile dietro il campanile attuale; tale costruzione è detta convenzionalmente “Delùbro”, termine che in realtà indicava nella classicità romana un tempio adibito alla purificazione dei sacerdoti prima delle cerimonie religiose.
Delùbro: L’edifico che da sempre caratterizza il paese è la costruzione in pietra più antica della provincia di Bologna, dato che la sua costruzione, ad opera di Anselmo di Nonantola, risale alla metà dell’VIII secolo.
In realtà questo edificio, a base ellittica con volta semisferica e piccola abside, non fu mai un delubro nel senso etimologico del termine, cioè un tempietto pagano, bensì il battistero della pieve alla quale era collegato tramite una porta interna. La forma, molto simile alle pievi ravennati, e l’origine bizantina della chiesa, hanno tratto in errore molti studiosi che hanno attribuito a questo edificio, oggi scollegato dal restante complesso ecclesiastico, una funzione di tempietto che non ha mai avuto.
Non è noto quando il Delùbro abbia cessato la sua funzione di battistero, ma già dal XII secolo esso era divenuto base del campanile e tale rimase fino al 1951, quando l’antico campanile fu abbattuto. La presenza di una grande sorgente d’acqua proprio sotto il Delùbro (sorgente che ha causato problemi di statica a tutto il complesso di edifici) sembra essere ulteriore prova della sua destinazione battesimale.
La pieve è cresciuta nei secoli intorno al Delùbro, inglobandolo negli edifici costituenti la canonica e nella parte della pieve che, ampliata nel XVIII secolo, costituiva la sacrestia e una stanza per le pubbliche udienze. Nell’area circostante il Delùbro si trovava, fino al XVIII secolo, il cimitero del paese. Recenti studi hanno permesso di identificare ciò che resta di un complesso di vani sotterranei che si estendevano sotto la pieve e la canonica antiche.
La grande croce in pietra visibile nel giardinetto antistante la pieve è opera di uno scalpellino locale, Lino Monari.
L’interno della pieve è molto spazioso; la cupola si eleva fino a 40 metri.
Interno Pieve:
Nella balconata lignea della controfacciata si trova la cassa d’organo in legno intagliato e dipinto, risalente al 1636.
A sinistra dell’ingresso principale, risalendo verso il presbiterio si trovano tre cappelle: quella di san Giovanni Bosco, quella di san Giuseppe e quella del Sacro Cuore di Gesù.
A destra la cappelle di santa Cecilia, molto venerata dai lizzanesi che possono vantare una Società Musicale fondata nel 1876, quella di sant’Antonio da Padova e quella della Madonna del Rosario, in cui si può ammirare una pregevole statua della Vergine in gesso e carta pesta dipinti, risalente al 1632, completa di fioriera realizzata nel 1837. L’ancona lignea che la circonda fu realizzata negli anni ’50 da un abilissimo artigiano locale, Raffaele Vai, come quella del Sacro Cuore.
Tutti gli affreschi che decorano le cappelle e la chiesa sono stati realizzati da Luciano e  Sara Bettini di Bologna nel 1959.
Il presbiterio è stato totalmente riorganizzato da don Racilio Elmi, attuale pievano, in occasione della Festa Triennale del 1983. Le colonnine di marmo che delimitano lo spazio del coro sono state offerte da parrocchiani generosi, e dedicate la prima a sinistra a san Domenico, la prima a destra a san Francesco. Gli affreschi al centro del presbiterio raffigurano scene della vita di san Mamante, con ai lati l’Ultima Cena e le Nozze di Cana.
Il deambulatorio custodisce gli arredi più preziosi, salvati dalla demolizione.
Sulla porta della sacrestia, a sinistra del presbiterio, si può vedere la pala dell’altare maggiore dell’antica pieve: raffigura san Mamante a sinistra e san Marco a destra, caratterizzato dal leone visibile al centro; si noti che il riflesso del leone nello scudo appare come una testa di vecchio. In alto si trova l’Incoronazione della Vergine, mentre al centro è visibile la raffigurazione fedele dei monti dell’Uccelliera, sul crinale a confine tra il Belvedere e la Toscana. Questa pala è opera dei pittori fananesi Ascanio e Pellegrino Magnanini, che hanno operato tra fine XVI e prima metà del XVII secolo in molte chiese dell’Appennino bolognese e modenese.
Proseguendo verso sinistra si trova una pala realizzata a olio su tela, raffigurante sant’Antonio Abate, riconoscibile dagli attributi tipici (il fuoco, la campanella, il cinghiale); recenti ricerche d’archivio consentono di datare l’opera al 1634 e di attribuire questa pala pregevolissima a Pietro Gallinari, allievo prediletto di Guido Reni.
Ancora oltre si trovano la statua di san Mamante del 1900, usata ancor oggi per le processioni, poi una statua di santa Rita e una di san Francesco risalente al XVIII secolo, forse in origine posta all’interno dell’oratorio a Lui dedicato, costruito nel 1731 e demolito nel 1901.
Ancora verso destra si trova un bel quadro di ignoto autore, a olio su tela, che raffigura la Madonna della Ghiara; è stato donato alla pieve da una devota residente nel borgo dei Ronchi, dove il quadro era conservato in un oratorio. L’opera, un ottimo esempio di Seicento emiliano,  si trova all’interno di una ricca cornice in legno intagliato e dorato, databile alla prima metà del XVII secolo.
Più avanti, sempre verso destra, è visibile un bel Crocifisso risalente alla fine del XVIII secolo.
All’estrema destra del presbiterio si trova una pregevole pala d’altare datata 1632. Raffigura i Santi Rocco e Sebastiano con la Madonna del Carmine incoronata da due cherubini; a terra, tra i due Santi, si trova una figura distesa su un panno bianco, un uomo con una piaga sul petto. Sullo sfondo il paese di Lizzano, perfettamente caratterizzato dalla raffigurazione dell’antica pieve vista da dietro, con il vecchio campanile ottagonale sul Delùbro. In basso al centro la scritta “CHARITAS POPULI 1632” conferma che la pala fu voluta come ex voto dai lizzanesi dopo la peste del 1631. Anche questa pala proviene, come testimoniato dai documenti d’archivio, dalla scuola di Guido Reni: in particolare, nella figura di san Sebastiano non si esclude un intervento diretto del celebre pittore bolognese, noto per le figure dolenti con gli occhi rivolti al cielo. Questa è certo la più rilevante opera d’arte custodita nella pieve.
A terra, presso l’altare maggiore, si trovano capitelli e portastendardi in arenaria, avanzi della struttura della pieve antica.
In fondo alla chiesa, presso l’ingresso, si trovano due plastici, realizzati anch’essi da Raffaele Vai: uno mostra la chiesa attuale, l’altro raffigura la pieve come si presentava nel 1900, nella struttura che aveva assunto in seguito a lavori del 1675, quando erano state aggiunte una piccola cupola e le navate laterali. Il plastico mostra anche la posizione dell’oratorio dei Santi Francesco e Gioacchino, di cui esisteva anche la Confraternita fino agli anni ’60 del Novecento.
(autore Alessandra Biagi)

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